Fra i neologismi inglesi che più hanno preso piede in questo periodo troviamo l’espressione “greenwashing“. In breve, si tratta di una strategia di alcuni enti o aziende che costruiscono ad hoc un’immagine positiva di sé stesse sotto il profilo dell’ecologia, della sostenibilità o dell’impatto ambientale derivante dalla vendita o dalla fabbricazione dei propri prodotti.
Ne avrete forse sentito parlare in occasione dei Jova Beach Party o in concomitanza con le inchieste sulla falsificazione delle emissioni del motore diesel che hanno coinvolto BMW e Mercedes fra il 2016 e il 2018.
La pratica esercita un forte effetto psicologico nella mente del consumatore, in un periodo in cui siamo bombardati da prodotti biologici, a impatto 0, confezioni provenienti da materie prime riciclate al 33% ed in un momento storico in cui le principali fonti di informazione trasmettono non-stop immagini di disastri naturali, calotte polari disciolte nell’oceano e così via. Di fatto il greenwashing è anche una pratica di pubblicità ingannevole, perché fa presa su questa paura crescente nelle persone.
Ci viene in soccorso però l’Unione Europea, che il 10/11/2022 ha approvato il cosiddetto CSRD o Corporate Sustainability Reporting Directive. Si tratta di un testo che mira a portare ordine e colmare le carenze delle legislazione esistente (Fardini, Ars Edizioni). Il testo si applicherà a tutte le grandi società europee con fatturato superiore a 150 milioni di Euro all’anno. Consisterà nell’obbligo di una produzione di una rendicontazione dettagliata dei dati sull’impatto delle attività sulle persone e sull’ambiente in cui operano. Ovviamente, i dati saranno oggetto di audit e verifiche da parte di enti esterni ed indipendenti, che andranno ad accreditare la rendicontazione dell’azienda auditata.
Magari non è la svolta totale sul clima che cercavamo, ma almeno ci aiuterà a comprare un prodotto piuttosto che un altro.